Valerio Bellone - Photography

Survivors, stories of migrations

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Anno di realizzazione – 2013

Luogo – Alcuni centri di prima accoglienza in Sicilia.

Premi – Nel 2014 questo lavoro fotografico è stato inserito nella short list del Sony World Photography Award ed esposto a Londra.

Nota – Le immagini sopra mostrate sono una raccolta in rappresentanza dell’intera serie.

Descrizione

Survivors è una serie di ritratti nata con l’intento di lasciare una traccia di memoria umanizzante riguardo agli uomini e alle donne che ogni anno arrivano sulle coste europee dall’Africa, passando per la Libia, con in tasca una speranza più che leggittima: un futuro migliore.
Questa serie di ritratti cerca di restituisce, simbolicamente, un volto alle migliaia di persone che troppo spesso sono state raccontate, dai media e dalla politica, esclusivamente come una “pericolosa invasione” dei nostri territori, attraverso video e fotografie che mostravano una massa informe, senza identità.
Volti simbolo di una libertà negata a popoli che non hanno diritto di viaggiare e di fuggire da guerre, carestie e miserie.
Immagini rappresentative di un triste capitolo della nostra storia, di costante attualità, all’inizio del XXI secolo.

Storia

Il 27 settembre 2013, un’imbarcazione proveniente da Misurata, in Libia, viene intercettata al largo dell’isola italiana di Lampedusa. A bordo ci sono 183 immigrati, 178 uomini, molti dei quali minorenni, 4 donne e un bambino di 7 anni. Provengono da svariati paesi africani: Eritrea, Gambia, Mali, Senegal, Sierra Leone, Somalia e Sudan… Uno sbarco come molti altri.
Lo stesso giorno i migranti vengono trasportati in quattro centri di accoglienza a Piana degli Albanesi, una cittadina nei pressi di Palermo.
Le storie di queste persone sono tragiche. Un ragazzo continua a dire «all’inferno le persone sono trattate meglio che in Libia». Alcuni dei suoi amici in Africa gli avevano consigliato di venire in Europa, perché «è un luogo ricco, dove le persone possono risparmiare i soldi per dare un futuro diverso ai propri figli».


Così, ogni anno, con questa speranza, migliaia di persone in fuga dalla guerra o dalla povertà, rischiano la vita attraversando il deserto per diversi giorni su carovane traboccanti di persone, in cui «si deve riuscire a sopportare il carico di quelli che hai sopra di te, abbiamo fatto a turno per chi stava sotto, ma molti di noi non sono sopravvissuti».
Chi arriva vivo in Libia, la descrive come «una terra di nessuno, ognuno ha una pistola, anche i bambini, talvolta ti sparano nei piedi, solo per divertirsi. In questo modo un mio amico è morto». Inoltre sono mesi di schiavitù, prigionia, tortura e ricatto.
Quelli psicologicamente più forti o solo i più fortunati, dopo circa sei mesi, sono in grado di imbarcarsi a Misurata per essere trasportati clandestinamente in Italia, ad un costo di 800 dinari (circa 640 dollari americani). Così, dopo il deserto, i rifugiati vanno verso il mare aperto su piccole imbarcazioni piene di speranza. Se la barca non affonda, arrivano in Italia, a Lampedusa o lungo le coste a sud dell’Italia e della Grecia.
Quando vengono intercettati dalle autorità italiane vengono trasportati in centri di prima accoglienza. Ogni qual volta riescono a sbarcare sono felici, perché sono vivi e hanno forte la speranza di trasferirsi in svariate parti d’Europa. Infattti, quelli che riescono a sbarcare iniziano da subito a bramare la libertà e vorrebbero lavorare per inviare denaro nel paese d’origine alle proprie famiglie. Ma poco dopo, spesso subentra la paura: i centri di prima accoglienza diventano centri di permanenza a tempo indeterminato come fossero delle prigioni, così iniziano le storie di ribellione o depressione.
«Ho pianto quando ho sentito dei nostri fratelli morti in mare, ma la Libia è peggio, credimi! Ho un figlio, lui è ancora in Sierra Leone. Quando sarò in grado di contattarlo, voglio dirgli di non venire perché per arrivare in Europa deve passare dalla Libia e la morte è meglio della Libia!».
Ogni migrante ha una storia personale da raccontare, ma la Libia, «l’inferno», rimarrà sempre nella loro memoria. Gli altri, i morti, sono sepolti dalla sabbia del deserto o sul fondo del mare. Un mare di lacrime ancora visibili negli occhi di chi arriva vivo.
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